בראשית – In principio
C’è una doppia e assoluta coincidenza tra la
riflessione artistica di Ciro Indellicati e il tema biblico-creativo da lui
indagato. Se, innanzitutto, l’arte è una ri-formazione,
ossia la ricerca di una nuova forma sensibile delle cose e del mondo secondo
l’ispirazione individuale, ecco che la pittura dell’artista offre senza dubbio una
visione inedita della materia primordiale (l’aristotelica pròte ùle, si potrebbe dire).
In secondo luogo la ri-formazione iconografica di Ciro Indellicati va a coincidere
anche con l’eterna ri-formazione del
mondo nella prospettiva biblica di Bereshit: la prima parola della Bibbia
significa, infatti, non semplicemente in
principio, ma anche (e più precisamente) in ogni principio. Prima di Bereshit c’è nulla. Bereshit vuol dire il principio di tutti i principi, il
punto zero, ma anche l’attimo perfetto di coincidenza del principio e della
fine di tutto. Che cosa è, dunque, l’arte di Ciro Indellicati? Non è un
semplicistico atto di fede o un più ironico (o terribilmente serio) “auto da
fé” vagamente psicanalitico. Così pure l’astrofisica non c’azzecca
(quest’ultima rimane vittima del suo infinitesimale “scarto temporale” per cui
il suo bereshit rimane un beffardo e irrisolto chiodo fisso). Per Ciro
Indellicati c’è un problema molto serio dentro al quale ci muoviamo: è il
problema dei problemi, la domanda delle domande. E l’interrogativo è il
seguente: qual è il senso dell’esistente? Una vera provocazione sui massimi
sistemi, non c’è che dire.
Ma l’arte di Ciro Indellicati non cade nella
trappola dell’imbastardimento linguistico e non cede alla lusinga
semplificatoria di sofismi da sagrestia. Oriente e Occidente si uniscono nella
comune nota culturale di Bereshit che rappresenta, così, il nostro termine
letterario più antico (non inteso in senso cronologico).
Bereshit è “poesia della domanda prima”. È fame
di risposte.
E Ciro Indellicati dimostra, in tal senso, la
sua ortodossia poetico-letteraria definitiva e pura. Come un redivivo monaco
bizantino spacca, sovente, il buio della tela con la non tinta dell’oro, lo
squarcio dell’eterno nella contingenza del mondo.
I colori sono quelli della tradizione
iconico-orientale più severa e classica: il verde o il blu. Dio è blu, non c’è
dubbio. Dio “soffia” blu. Straordinario. Lui, Ciro, il monaco-pittore e
abitatore del nostro deserto di senso, lo si vede, talvolta, camminare
lentamente, poiché l’icona non è affare da poco. E l’icona presuppone la
chiamata a raccolta di tutte le facoltà fisiche e intellettuali per cui anche
il corpo e il passo rallentano.
La concentrazione diventa un turbine e
un’ossessione. A volte è un pensiero di settimane o di mesi. È la vertigine dei
pensieri. Poi d’improvviso il pennello inizia a correre veloce e parla, quasi,
con le lettere dell’alfabeto e degli alfabeti.
Questo perché Dio crea parlando. A Dio non servono
i talismani, i formulari ampollosi o la bacchetta magica. Dio viaggia leggero.
Il pittore diviene, quindi, instrumentum
Dei. La verità di Ciro è sacra e potente. Ontologicamente in perfetta
tensione ed equilibrio anche nella multidirezionale possibilità filosofica. E
da buon bizantino Ciro Indellicati predilige l’astrazione (perché anche la
lettera è astrazione di una volontaria sollecitazione nervosa dell’ugola).
Figurare liberamente il volto di Dio non è mai
stato nelle corde della tradizione orientale. Simboleggiarne la verità,
tuttavia, è un anelito che va ben oltre la tradizione ebraico-cristiana.
Lo sforzo è supremo. Il battito cardiaco accelera,
la mente è confusa. Poi all’improvviso il pennello inizia a correre senza posa.
Massimo
Rossi
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