lunedì 6 aprile 2015

bereshit - in principio



בראשיתIn principio


C’è una doppia e assoluta coincidenza tra la riflessione artistica di Ciro Indellicati e il tema biblico-creativo da lui indagato. Se, innanzitutto, l’arte è una ri-formazione, ossia la ricerca di una nuova forma sensibile delle cose e del mondo secondo l’ispirazione individuale, ecco che la pittura dell’artista offre senza dubbio una visione inedita della materia primordiale (l’aristotelica pròte ùle, si potrebbe dire).
In secondo luogo la ri-formazione iconografica di Ciro Indellicati va a coincidere anche con l’eterna ri-formazione del mondo nella prospettiva biblica di Bereshit: la prima parola della Bibbia significa, infatti, non semplicemente in principio, ma anche (e più precisamente) in ogni principio. Prima di Bereshit c’è nulla. Bereshit vuol dire il principio di tutti i principi, il punto zero, ma anche l’attimo perfetto di coincidenza del principio e della fine di tutto. Che cosa è, dunque, l’arte di Ciro Indellicati? Non è un semplicistico atto di fede o un più ironico (o terribilmente serio) “auto da fé” vagamente psicanalitico. Così pure l’astrofisica non c’azzecca (quest’ultima rimane vittima del suo infinitesimale “scarto temporale” per cui il suo bereshit rimane un beffardo e irrisolto chiodo fisso). Per Ciro Indellicati c’è un problema molto serio dentro al quale ci muoviamo: è il problema dei problemi, la domanda delle domande. E l’interrogativo è il seguente: qual è il senso dell’esistente? Una vera provocazione sui massimi sistemi, non c’è che dire.
Ma l’arte di Ciro Indellicati non cade nella trappola dell’imbastardimento linguistico e non cede alla lusinga semplificatoria di sofismi da sagrestia. Oriente e Occidente si uniscono nella comune nota culturale di Bereshit che rappresenta, così, il nostro termine letterario più antico (non inteso in senso cronologico).
Bereshit è “poesia della domanda prima”. È fame di risposte.
E Ciro Indellicati dimostra, in tal senso, la sua ortodossia poetico-letteraria definitiva e pura. Come un redivivo monaco bizantino spacca, sovente, il buio della tela con la non tinta dell’oro, lo squarcio dell’eterno nella contingenza del mondo.
I colori sono quelli della tradizione iconico-orientale più severa e classica: il verde o il blu. Dio è blu, non c’è dubbio. Dio “soffia” blu. Straordinario. Lui, Ciro, il monaco-pittore e abitatore del nostro deserto di senso, lo si vede, talvolta, camminare lentamente, poiché l’icona non è affare da poco. E l’icona presuppone la chiamata a raccolta di tutte le facoltà fisiche e intellettuali per cui anche il corpo e il passo rallentano.
La concentrazione diventa un turbine e un’ossessione. A volte è un pensiero di settimane o di mesi. È la vertigine dei pensieri. Poi d’improvviso il pennello inizia a correre veloce e parla, quasi, con le lettere dell’alfabeto e degli alfabeti.
Questo perché Dio crea parlando. A Dio non servono i talismani, i formulari ampollosi o la bacchetta magica. Dio viaggia leggero. Il pittore diviene, quindi, instrumentum Dei. La verità di Ciro è sacra e potente. Ontologicamente in perfetta tensione ed equilibrio anche nella multidirezionale possibilità filosofica. E da buon bizantino Ciro Indellicati predilige l’astrazione (perché anche la lettera è astrazione di una volontaria sollecitazione nervosa dell’ugola).
Figurare liberamente il volto di Dio non è mai stato nelle corde della tradizione orientale. Simboleggiarne la verità, tuttavia, è un anelito che va ben oltre la tradizione ebraico-cristiana.
Lo sforzo è supremo. Il battito cardiaco accelera, la mente è confusa. Poi all’improvviso il pennello inizia a correre senza posa.
Massimo Rossi

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