venerdì 3 aprile 2015

Jabés e il libro della sovversione



In principio era il Tutto e il Tutto era il verbo sacro e il verbo sacro era il silenzio infinito che nessuno stormire e nessun suono e nessun soffio s’erano levati a turbare.
Ma appena concepito dall’uomo, il Tutto s’inabissò nel Nulla e il Nulla era il vocabolo e il vocabolo era il libro e il libro era il turbamento.
Riusciremo mai a conoscere l’estensione di tale turbamento?
L’atto dello scrivere sfida ogni distanza. Del resto l’ambizione di ogni scrittore non è quella di elevare l’effimero, il profano, all’altezza del duraturo, del sacro?
La scrittura, di opera in opera, è lo sforzo che i vocaboli compiono per estenuare il dire – l’istante – onde potersi rifugiare nell’indicibile. Il quale non è ciò che non può essere detto, ma proprio ciò che è stato detto in modo così intimo e totale che ormai dice solo questa intimità, questa totalità.
A questo punto, profano e sacro appaiono come preludio e termine di uno stesso impegno: quello che per lo scrittore consiste nel vivere la scrittura fino a quella soglia del silenzio su cui sarà da essa abbandonato. Insostenibile silenzio: l’universo, sorpreso, vi emerge, per perdersi a sua volta nel vocabolo, da esso assorbito.
Se si ammette che ciò che rede inquieti, che dà ansia, che affannosamente rimette tutto in questione, è, fin dall’inizio, il profano, allora si deve dedurre che in qualche modo il sacro, con la sua sdegnosa permanenza, da una parte è quel è quel che ci paralizza dentro noi stessi, una specie di morte violenta dell’anima, dall’altra è l’esito deludente del linguaggio, l’ultimo vocabolo pietrificato.
Per questo, solo in relazione al profano, e attraverso di esso, è possibile accedere al sacro. Il quale non si presenta affatto come sacro, ma sacralizzazione d’un profano ebbro di oltrepassare se stesso, insomma come indefinito prolungamento del minuto, e non come eternità estranea dell’istante;
poiché la morte è un affare per il tempo.



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